Comunione e Condominio – Parti comuni dell’edificio in genere = Cassazione Civile – Sez. III°, n. 11110 del 28/05/2015 = La 3° Sezione della Corte di Cassazione ha precisato che “Il giardino adiacente l’edificio condominiale, se non è occupato e circoscritto dalle fondamenta e dai muri perimetrali, né destinato al servizio delle unità che vi si affacciano, non costituisce il “suolo su cui sorge l’edificio”, né, rispettivamente, un “cortile”, sicché la sua natura comune non può essere presunta a norma dell’art. 1117, n. 1, c.c., ma deve risultare da un apposito titolo.”.

 

TESTO INTEGRALE: Cassazione Civile – Sez. III°, n. 11110 del 28/05/2015

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. BURSESE Gaetano Antonio – Presidente – Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere – Dott. PARZIALE Ippolisto – Consigliere – Dott. FALASCHI Milena – Consigliere – Dott. ABETE Luigi – rel. Consigliere – ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 22560 – 2009 R.G. proposto da:

G.D.A. – c.f. (OMISSIS) – in proprio e quale mandatario – rappresentante di B.E. (in virtù di procura generale del 13.8.1993), elettivamente domiciliato in Roma alla via , presso lo studio dell’avvocato A N che congiuntamente e disgiuntamente all’avvocato G L lo rappresenta e difende in virtù di procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

C.A. – c.f. (OMISSIS) – e B.P. – c.f. (OMISSIS) – elettivamente domiciliati in Roma alla piazza, presso lo studio dell’avvocato C F che li rappresenta e difende in virtù di procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrenti –

e G.L. e G.R.;

– intimati –

Avverso la sentenza n. 525 dei 14.1/23.2.2009 della Corte d’Appello di Milano;

Udita la relazione della causa svolta all’udienza pubblica del 19 febbraio 2015 dal consigliere dott. L A;

Udito l’avvocato N A per il ricorrente;

Udito l’avvocato F C per i controricorrenti;

Udito il Pubblico Ministero, in persona del sostituto procuratore generale dott. P I che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

Con atto in data 4.9.2000 C.A. e B.P. citavano a comparire innanzi al tribunale di Milano – sezione distaccata di Cassano d’Adda – B.E., in proprio e quale erede di G.G., G.D., G. L. e G.R., quali eredi di G.G..

Deducevano che C.A. aveva edificato in (OMISSIS), una villetta composta da due piani fuori terra e da uno scantinato.

Deducevano, inoltre, che l’appartamento al primo piano ed il box adiacente erano stati acquistati in proprietà dai convenuti B.E. e G.G. in virtù di sentenza n. 9340/1986 del tribunale di Milano.

Deducevano, ancora e tra l’altro, che i convenuti avevano delimitato con una rete metallica munita di cancelletto una parte consistente del giardino circostante l’immobile, precludendovene l’accesso.

Chiedevano, tra l’altro, che i convenuti fossero condannati a rimuovere la rete metallica delimitante la parte interclusa del giardino.

Si costituivano B.E. e G.G..

Deducevano, tra l’altro, che in forza di possesso ultraventennale avevano usucapito la porzione di giardino interclusa con la rete metallica ed, in subordine, qualora non fosse stato acclarato il loro acquisto a titolo originario, che il giardino era oggetto di proprietà comune.

Chiedevano quindi il rigetto dell’avversa domanda ed in via riconvenzionale la declaratoria dell’intervenuto acquisto da parte loro per usucapione della porzione recintata del giardino ovvero, in subordine, la declaratoria della proprietà comune dell’intero giardino.

Ammesse ed assunte le prove testimoniali hic et inde invocate, disposta ed espletata c.t.u., con sentenza n. 270/2004 il tribunale adito respingeva le domande tutte esperite e compensava integralmente le spese di lite.

Interponevano appello C.A. e B.P..

Resistevano unicamente B.E., in proprio e quale erede di G.G., e G.D.A., parimenti quale erede di G.G.; instavano per il rigetto dell’avverso gravame ed in via incidentale per l’accoglimento delle domande riconvenzionali esperite, in via principale ed in via subordinata, in prime cure e G.R. venivano dichiarati contumaci.

Con sentenza n. 525 dei 14.1/23.2.2009 la Corte d’Appello di Milano accoglieva in parte l’appello principale e, per l’effetto, tra l’altro, condannava B.E., G.D. A., G.L. e G.R. a rimuovere la rete metallica; rigettava l’appello incidentale; compensava integralmente le spese del grado.

Esplicitava la corte territoriale, specificamente in ordine alla domanda di rimozione della rete metallica, che gli appellanti avevano “dimostrato di essere proprietari esclusivi del giardino” (così sentenza d’appello, pag. 11); che, in particolare, avevano atteso alla produzione in grado d’appello dell’atto di acquisto trascritto in data 10.2.1976 dell’appezzamento di terreno sul quale era stato edificato l’immobile; che, sebbene avessero potuto allegarlo nel corso del giudizio di primo grado, nondimeno se ne doveva ammettere la produzione in seconde cure attesa l’indispensabilità ai fini della decisione; che “infatti l’atto di vendita, con il quale i coniugi C. – B. hanno acquistato l’intero terreno su cui sorge l’edificio, risulta essere l’unico documento che consente di superare l’incertezza (altrimenti insuperabile, alla stregua degli atti) circa la proprietà del giardino” (così sentenza d’appello, pag. 12); che, propriamente, la presunzione di comunione ex art. 1117 c.c., n. 1), del suolo riguarda esclusivamente il suolo occupato dalle fondamenta e circoscritto dai muri perimetrali dell’edificio condominiale, mentre il suolo adiacente o circostante può rientrare tra le cose comuni unicamente per diverso titolo.

Esplicitava ulteriormente – la corte – che, dal canto loro, gli appellati non avevano “prodotto alcun titolo che potesse consentirgli di erigere la rete de qua” (così sentenza d’appello, pag. 12); che, d’altronde, la rete metallica sarebbe stata comunque posizionata illegittimamente, qualora il giardino fosse stato di proprietà comune, giacchè avrebbe precluso agli altri condomini la possibilità di fruirne; che in ogni caso era del tutto mancata la prova del dedotto acquisto per usucapione, segnatamente “del possesso ventennale, continuativo e incontestato da parte dei G. – B. della porzione di giardino de qua” (così sentenza d’appello, pag. 13).

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso G.D. A., in proprio e quale mandatario – rappresentante di B. E.; ne ha chiesto sulla scorta di quattro motivi la cassazione con ogni conseguente statuizione in ordine alle spese.

C.A. e B.P. hanno depositato controricorso; hanno chiesto dichiararsi inammissibile e, comunque, rigettarsi l’avverso ricorso con il favore delle spese del grado di legittimità.

G.L. e G.R. non hanno svolto difese.

Motivi della decisione

Con il primo motivo il ricorrente deduce “utilizzo di prove documentali inammissibilmente prodotte in grado di appello con conseguente violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., comma 3 (art. 360 c.p.c., n. 3)” (così ricorso, pagg. 10 -11).

Adduce che, contrariamente a quanto assunto dalla corte di merito, non vi era spazio alcuno perchè si reputasse indispensabile ai fini della decisione e, dunque, ammissibile la produzione in grado di appello dell’atto di acquisto dell’appezzamento di terreno; che infatti la corretta esegesi della previsione dell’art. 345 c.p.c., comma 3 impone “di ridurre al massimo i margini di discrezionalità della valutazione giudiziale” (così ricorso, pag. 12), nel senso che non può “esserci indispensabilità se la medesima prova ben poteva essere fornita anche in primo grado” (così ricorso, pag. 12), giacchè, altrimenti, si prefigura la possibilità di “sanatoria di una decadenza ex art. 184 c.p.c. nella quale la parte è già incorsa nel primo grado di giudizio” (così ricorso, pag. 13), nè al contempo l’indispensabilità del documento può essere postulata “per il sol fatto che permette di superare l’incertezza” (così ricorso, pag. 13).

Con il secondo motivo il ricorrente deduce “insufficiente motivazione circa la decisione di ammettere la prova documentale prodotta in secondo grado (art. 360 c.p.c., n. 5)” (così ricorso, pag. 14).

Adduce che l’affermata indispensabilità ai fini della decisione della produzione in grado di appello dell’atto di acquisto risulta sorretta da motivazione del tutto insufficiente, per nulla dettagliata.

Il primo ed il secondo motivo di ricorso sono strettamente connessi.

Se ne giustifica, pertanto, la contestuale disamina.

Entrambi in ogni caso sono immeritevoli di seguito.

Si premette, nel segno dell’insegnamento a sezioni unite di questa Corte (il riferimento è a Cass. sez. un. 20.4.2005, n. 8203), che la produzione di nuovi documenti in sede di gravame può aver luogo allorchè la parte – che ha provveduto ad allegarli – dimostri di essere stata nell’impossibilità per causa ad essa non imputabile di produrli in prime cure ovvero allorchè il giudice li reputi indispensabili ai fini della decisione della lite.

L’enunciato insegnamento, esattamente reiterato da questa Corte (cfr. Cass. 26.6.2007, n. 14766), è stato, segnatamente in ordine al parametro dell’indispensabilità, debitamente ed ulteriormente specificato non solo nel senso che il giudice del gravame è tenuto a motivare sulla ritenuta attitudine della nuova produzione a dissipare lo stato di incertezza sui fatti controversi (cfr. Cass. 23.7.2014, n. 16745), ma pur nel senso che il nuovo documento è suscettibile dal giudice dell’appello di esser qualificato indispensabile, allorquando è di per sè sufficiente a provare il fatto controverso, a prescindere da tutte le altre fonti di prova, ovvero allorquando sia finalizzato a corroborare gli esiti delle prove già raccolte in primo grado, giacchè in tale evenienza la produzione non è destinata ad aprire un nuovo fronte di indagine (cfr. Cass. 29.5.2013, n. 13432).

Su tale scorta è sufficiente rimarcare che la corte di merito ha puntualmente esplicitato che la produzione in sede di gravame, da parte degli appellanti in questa sede controricorrenti, dell’atto di acquisto trascritto in data 10.2.1976 dell’appezzamento di terreno sul quale era stato edificato l’immobile, ampiamente si legittimava, giacchè trattavasi dell'”unico documento che consente di superare l’incertezza (altrimenti insuperabile, alla stregua degli atti) circa la proprietà del giardino” (così sentenza d’appello, pag. 12) ovvero in ordine al fatto controverso della titolarità del diritto di proprietà in ordine al giardino circostante la villetta a due piani.

In questi termini – con precipuo riferimento al secondo motivo di ricorso – è bene evidente dunque che la corte distrettuale ha al contempo esaustivamente assolto l’onere di motivazione.

E ciò tanto più che questa Corte spiega che il riscontro del presupposto dell’indispensabilità non richiede necessariamente un apposito provvedimento motivato di ammissione, essendo sufficiente che la giustificazione dell’ammissione sia desumibile inequivocabilmente dalla motivazione della sentenza di appello, dalla quale risulti, anche per implicito, la ragione per la quale tale prova sia stata ritenuta decisiva ai fini del giudizio (cfr. Cass. 15.11.2011, n. 23963).

Con il terzo motivo il ricorrente deduce “omessa e/o insufficiente motivazione circa il mancato accoglimento dell’appello incidentale in ordine alla domanda principale di usucapione (art. 360 c.p.c., n. 5)” (così ricorso, pag. 15).

Adduce che al riguardo “la Corte d’Appello ha totalmente omesso di indicare gli elementi da cui ha desunto il proprio convincimento” (così ricorso, pag. 16); che “non si comprende come abbia potuto la Corte d’Appello sostenere che la prova del possesso ventennale sia di fatto del tutto mancata senza aver esaminato le prove testimoniali rese in primo grado” (così ricorso, pag. 16); che è “mancato l’esame delle risultanze di dette prove testimoniali” (così ricorso, pag. 16); che, al contrario, le testimonianze rese in primo grado sono state tali (…) da dimostrare l’effettivo possesso ultraventennale dell’area a giardino de qua” (così ricorso, pag. 17); che invero “tutti i testi escussi hanno confermato che l’area in questione è sempre stata recintata e chiusa da un cancelletto e che (…) gli attori non hanno mai potuto utilizzare tale area” (così ricorso, pag. 18).

Il motivo non merita seguito.

Si rappresenta previamente che, in ossequio al canone di cosiddetta autosufficienza del ricorso per cassazione, quale positivamente sancito all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), (al riguardo cfr. Cass. 20.1.2006, n. 1113, secondo cui il ricorso per cassazione – in forza del principio di cosiddetta “autosufficienza ” – deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi od atti attinenti al pregresso giudizio di merito), ben avrebbe dovuto il ricorrente riprodurre più o meno integralmente l’intero spettro delle dichiarazioni testimoniali assunte nel corso del primo grado del giudizio e non limitarsi a riproporre stralci delle dichiarazioni rese da taluni testi, segnatamente da Co.Ri. e B.G., ovvero a parafrasare alcune delle dichiarazioni rese dai testi G. E. ed G.A..

E ciò, si badi, tanto più che i controricorrenti hanno specificamente dedotto che il ricorrente “cita, a suo piacimento, alcune deposizioni testimoniali rese avanti il Giudice di prime cure, dimenticandosi tuttavia di sottolineare e di valutare (…) che sono altresì state assunte dal Giudice di primo grado testimonianze di tenore del tutto diverso e contrastante con quanto ex adverso sostenuto e dedotto” (così controricorso, pag. 5).

Si rappresenta comunque che col motivo in disamina il ricorrente prospetta un asserito migliore e più appagante coordinamento degli esiti delle deposizioni testimoniali.

In questi termini, tuttavia, il motivo è propriamente inammissibile, atteso che il coordinamento dei dati acquisiti è aspetto del giudizio che attiene al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento; in caso contrario, infatti, il motivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione (cfr. Cass. 26.3.2010, n. 7394; altresì Cass. sez. lav. 7.6.2005, n. 11789).

Con il quarto motivo il ricorrente deduce “circa il mancato accoglimento dell’appello incidentale in ordine alla domanda subordinata volta all’accertamento della proprietà comune del giardino: violazione e falsa applicazione dell’art. 1117 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3)” (così ricorso, pag. 20).

Adduce che, “come indiscutibilmente riconosciuto anche dagli appellanti, tutto l’immobile (…) costituisce a tutti gli effetti di legge un condominio” (così ricorso, pag. 20); che, “secondo il disposto di cui all’art. 1117 c.c, costituisce parte comune, tra le altre, il cortile” (così ricorso, pag. 20); che la sentenza del tribunale di Milano n. 9340/1986 ha disposto in favore di egli ricorrente e degli appellati tutti il trasferimento della proprietà dell’appartamento al primo piano, del box adiacente e delle quote proporzionali delle parti comuni, tra cui è ricompreso anche il giardino, pertinenza dell’immobile; che, contrariamente a quanto assunto dalla corte distrettuale, pur ad ammettere che l’intero terreno sul quale è stato edificato l’immobile fosse originariamente degli attori, l’alienazione di un’autonoma proprietà immobiliare ricompresa nell’edificio ha determinato ipso iure l’insorgere di una situazione di condominio estesa, nel caso di specie, anche, in mancanza di titolo diverso, al cortile ovvero al giardino.

Il motivo non merita seguito.

Va doverosamente rimarcato che l’area per cui si controverte – siccome puntualizzano i controricorrenti – “non è affatto un cortile ma è un giardino, esterno al fabbricato, che non ha alcuna funzione di accesso al fabbricato” (così controricorso, pag. 7, ove si soggiunge che il c.t.u. officiato in prime cure ha definito l’area de qua “giardino circostante la palazzina”).

Su tale scorta si segnala quanto segue.

Per un verso, che “il suolo su cui sorge l’edificio“, che a norma dell’art. 1117 c.c., n. 1, è presunto comune tra i condomini di un edificio, è soltanto quello occupato e circoscritto dalle fondamenta e dai muri perimetrali esterni (cfr. Cass. 13.1.1984, n. 273).

Per altro verso, che costituisce cortile – del pari a norma dell’art. 1117 c.c., n. 1, presunto comune tra i condomini di un edificio – lo spazio scoperto circondato dai corpi di fabbrica di uno stesso edificio o da più fabbricati contermini, che sia destinato, nell’ambito di un rapporto condominiale – o implicante, comunque, una disciplina, a carattere interno, di interessi comuni od omogenei – a fornire, in via primaria, aria e luce agli edifici che vi si affacciano ed a servire, in via complementare, da disimpegno per le esigenze degli immobili che lo circondano, consentendo il traffico delle persone e, in via eventuale, dei veicoli (cfr. Cass. 2.8.1977, n. 3380).

Per altro verso ancora, che il suolo adiacente o circostante l’edificio condominiale può rientrare tra le cose comuni unicamente per diverso titolo (cfr. Cass. 13.1.1984, n. 273).

In questi termini basta rimarcare che ben avrebbero dovuto i ricorrenti – siccome ha condivisibilmente rilevato la corte milanese – produrre un apposito titolo onde dar ragione della pretesa comune proprietà del giardino de quo agitur, esterno e circostante la villetta, per nulla assimilabile ad un cortile, porzione residua dell’appezzamento di terreno che C.A. e B.P. ebbero ad acquistare con l’atto trascritto in data 10.2.1976 e su parte del quale la medesima villetta è stata costruita.

In questi termini, evidentemente, i ricorrenti non possono di certo limitarsi a dedurre che nella sentenza n. 9340/1986 del tribunale di Milano “non vi è alcun chiaro ed inequivocabile elemento dal quale possa desumersi l’esclusione della condominialità del cortile” (così ricorso, pag. 22).

Il rigetto del ricorso giustifica la condanna del ricorrente, in proprio e quale mandatario – rappresentante di B.E., a rimborsare ai controricorrenti le spese del grado di legittimità.

La liquidazione segue come da dispositivo.

Nessuna statuizione in ordine alle spese va assunta nei confronti degli intimati G.L. e G.R..

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente, in proprio e quale mandatario rappresentante di B.E., a rimborsare ai controricorrenti le spese del grado di legittimità che si liquidano nel complesso in Euro 2.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario delle spese generali, iv.a. e cassa come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sez. seconda civ. della Corte Suprema di Cassazione, il 19 febbraio 2015. Depositato in Cancelleria il 3 giugno 2015

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