Locazione di cose – Contratto – Durata = Cassazione Civile – Sez. III° – Sentenza n. 11157 del 29/05/2015 = La 3° sezione della Corte di Cassazione ha sancito che “La continuazione delle locazioni concluse dall’usufruttuario, in corso al tempo della cessazione dell’usufrutto, per il termine massimo di un quinquennio dalla cessazione dell’usufrutto, sempre che constino da atto pubblico o da scrittura privata di data certa anteriore, deriva dall’espressa previsione dell’art. 999 c.c. e costituisce quindi la mera applicazione di una norma di legge. Con la conseguenza che, ai fini della scadenza della locazione, in difetto di contraria previsione della legge, non è richiesta alcuna manifestazione di volontà della parte interessata né, in sede processuale, ove insorga una lite con il conduttore che intenda protrarre la sua detenzione oltre il termine quinquennale previsto dall’art. 999 c.c., occorre un’eccezione in senso stretto della parte interessata al fine di ottenere la reiezione della pretesa avversaria.”

 

TESTO INTEGRALE: Cassazione Civile – Sez. III° – Sentenza n. 11157 del 29/05/2015

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. Segreto Antonio – presidente – dott. Carleo Giovanni – rel. Consigliere – dott. Sestini Danilo – consigliere – dott. Scarano Luigi Alessandro – consigliere – dott. Rubino Lina – consigliere – ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 20454/2011 proposto da:

L.S.L. (OMISSIS), L.S.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, presso lo studio dell’avvocato Z M, che li rappresenta e difende unitamente all’avv. G C giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

F. SRL (OMISSIS), in persona del suo legale rappresentante pro tempore Geom. F.S.A., elettivamente domiciliata in ROMA, presso lo studio dell’avvocato O G, rappresentata e difesa dall’avvocato C L giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 543/2010 della Corte D’Appello di MESSINA, depositata il 09/02/2011 R.G.N. 59/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/2/2015 dal Consigliere Dott. GC;

udito l’Avvocato G B per delega;

udito l’Avvocato G F per delega;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. B T, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

Con ricorso depositato il 3.6.2006 La.Sp.Gi., premesso di essere imprenditore agricolo-coltivatore, titolare dell’azienda V G, esponeva che con scrittura privata del 30.3.1970, intercorsa con C.V., coniuge superstite di G.G., e con le figlie dello stesso, tra le quali G.L., aveva convenuto l’acquisto dell’azienda “V N & Figli“, comprensiva degli immobili, mentre aveva preso in affitto agrario i terreni di cui la C. aveva l’usufrutto, su cui veniva esercitata l’attività vivaistica.

Aggiungeva che, a seguito di pignoramento trascritto il 3.3.1989 su istanza della C.C.R V.E. era stata promossa una procedura esecutiva immobiliare ai danni di G.L., avente ad oggetto la richiesta di vendita del terreno in catasto al fl. 11 part. 90 con successiva aggiudicazione per il prezzo di Euro 209.068,00 alla Fama Srl, la quale, immessasi nel terreno, aveva stravolto lo stato dei luoghi, precludendo ad esso ricorrente l’esercizio di servitù di passaggio e di acquedotto esercitate da oltre venti anni su strade che attraversano il fondo trasferito con il decreto opposto e da sempre utilizzate per l’esercizio dell’attività vivaistica.

Aggiungeva ancora che il rapporto di affitto agrario, già protrattosi sino al 1997, si era ulteriormente rinnovato fino al 2012.

Ciò premesso, chiedeva il riconoscimento e l’opponibilità alla società resistente del rapporto agrario, la condanna della società F alla restituzione del fondo ed al risarcimento dei danni cagionati oltre interessi e rivalutazione.

Nel corso del giudizio, in cui si costituiva la F deducendo che il ricorrente non aveva mai fatto valere i suoi diritti nel procedimento di espropriazione immobiliare, dopo la morte di La.S.G., si costituivano quali suoi eredi L.S.L. e G.. In esito al giudizio, il Tribunale adito dichiarava risolto il rapporto agrario e condannava la parte ricorrente al rilascio del fondo per la data del 10.11.2008. Avverso tale decisione proponevano appello L.S.L. e L.S.G., quali eredi di La.S.Gi., ed in esito al giudizio, in cui si costituiva la F Srl proponendo a sua volta appello incidentale, la Corte di Appello di Messina con sentenza depositata in data 9 febbraio 2011 respingeva l’impugnazione proposta dai L.S., in parziale accoglimento dell’appello incidentale, dichiarava il difetto di competenza della sezione agraria del Tribunale di Barcellona in ordine alla domanda afferente il riconoscimento della servitù di passaggio ed acquedotto sul fondo acquistato dalla società F, dichiarando competente il Tribunale di quella città, in sede ordinaria cui rimetteva la causa, provvedeva al governo delle spese.

Avverso la detta sentenza i soccombenti hanno quindi proposto ricorso per cassazione articolato in sette motivi. Resiste la F srl con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa. All’udienza del 21 novembre 2014 la Corte ha disposto l’acquisizione del fascicolo d’ufficio dell’appello.

Motivi della decisione

Con la prima doglianza, deducendo la violazione e la falsa applicazione degli artt. 132 e 158 c.p.c., L.S. n. 320 del 1963, artt. 2 e 3, parte ricorrente ha censurato la sentenza impugnata in quanto mancante, nell’intestazione, sia dell’indicazione degli esperti che avrebbero dovuto completare la regolare costituzione dell’organo giudiziario, così risultando emessa da un collegio composto da soli tre giudicanti in luogo dei cinque previsti dalla legge, sia dell’indicazione relativa alla sezione specializzata agraria della Corte d’appello.

La doglianza è infondata. Ed invero, per come risulta dalla lettura del verbale di udienza del 28.10.2010 – controllo consentito a questa Corte, in ipotesi di error in procedendo per il quale la Corte di cassazione è giudice anche del fatto processuale – al momento della lettura del dispositivo la costituzione del Collegio era assolutamente regolare contemplando la presenza non solo dei giudici togati ma anche degli esperti richiesti dalla legge in ipotesi di controversie riguardanti la materia agraria, nelle persone del Dr. T.P. e del Dr. Ci.An..

Ciò posto, va rilevato che nella specie ricorre soltanto una mera omissione, nella intestazione della sentenza, sia dell’indicazione relativa alla sezione specializzata agraria sia dei nominativi degli esperti, riportati invece nel verbale dell’udienza di discussione. In entrambi i casi, l’omissione non concreta la violazione di norme, che determini la nullità della decisione, ma soltanto la sussistenza di un mero errore materiale emendabile ai sensi degli artt. 287 e 288 c.p.c.. Ed invero, come ha già avuto modo di statuire questa Corte, “La nullità della sentenza deliberata da giudici diversi da quelli che hanno assistito alla discussione, che è insanabile e rilevabile d’ufficio ai sensi dell’art. 158 c.p.c., può esser dichiarata solo quando vi sia la prova della non partecipazione al collegio deliberante di un giudice che aveva invece assistito alla discussione della causa; tale prova non può evincersi dalla sola omissione, nella intestazione della sentenza, del nominativo del giudice non tenuto alla sottoscrizione, quando esso sia stato invece riportato nel verbale dell’udienza di discussione, sia perchè l’intestazione della sentenza non ha una sua autonoma efficacia probatoria, riproducendo i dati del verbale d’udienza, sia perchè da quest’ultimo, facente fede fino a querela di falso dei nomi dei giudici componenti il collegio e della riserva espressa degli stessi giudici a fine udienza di prendere la decisione in camera di consiglio, nasce la presunzione della deliberazione della sentenza da parte degli stessi giudici che hanno partecipato all’udienza collegiale, ulteriormente avvalorata dalla circostanza che, ai sensi dall’art. 276 c.p.c., tra i compiti del presidente del collegio vi è quello di controllare che i giudici presenti nella camera di consiglio siano quelli risultanti dal verbale dell’udienza di discussione. Ne consegue che l’omissione nella intestazione della sentenza del nome di un giudice, indicato, invece, nel predetto verbale, si presume determinata da errore materiale emendabile ai sensi degli artt. 287 e 288 c.p.c.” (ex multis Cass. n. 15879/2010, n. 11785/07, n. 22497/06).

Passando all’esame della seconda doglianza, svolta per violazione e falsa applicazione dell’art. 416 c.p.c., ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, va osservato che i ricorrenti hanno censurato la decisione impugnata per il mancato accoglimento dell’eccezione con cui era stata da essi dedotta la decadenza della F per l’omessa contestazione specifica dei fatti di causa posti a fondamento delle domande dai ricorrenti. Tale omissione avrebbe significato l’ammissione dei fatti da essi dedotti.

La censura è infondata, non trovando riscontro negli atti di causa.

Ed invero, così come risulta dalla lettura del controricorso, già con la memoria depositata il 17 ottobre 2006 (doc. 1) nel giudizio di primo grado (opportunamente riportata in ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza), la F Srl aveva denunciato la propria estraneità ai fatti dedotti da parte ricorrente sottolineando di essere una semplice aggiudicataria del fondo in procedimento di espropriazione immobiliare, in cui il L.S. non aveva mai fatto valere i suoi presunti diritti sull’immobile ed in cui non erano stati prodotti atti idonei a dimostrare che, prima della trascrizione del pignoramento, sussistessero diritti di alcun genere del L.S. sui beni pignorati (v. pagg. 6 e 7). Inoltre, nelle note autorizzate depositate in cancelleria il 31 gennaio 2007, nel medesimo giudizio di primo grado, la F aveva espressamente e specificamente contestato che non vi era prova del rapporto agrario dedotto; e che nessuna trascrizione di detto contratto, anteriore alla trascrizione del pignoramento immobiliare, risultava agli atti del procedimento esecutivo, che alla F srl aveva attribuito la proprietà piena ed assoluta, senza vincoli di sorta, dell’immobile in questione. Ne deriva l’infondatezza della censura.

Passando all’esame della terza doglianza per violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, va osservato che i ricorrenti, premesso che nell’atto di appello avevano eccepito l’illegittimità della sentenza impugnata per aver il decidente fondato la sua decisione su questioni non sollevate dalla F, quali l’efficacia limitata al quinquennio dalla cessazione dell’usufrutto ex art. 999 c.c. e l’inopponibilità ex art. 2923, comma 2, hanno censurato la sentenza di secondo grado per avere i giudici di appello erroneamente escluso la sussistenza del vizio di extrapetizione sulla base della considerazione che il primo giudice avrebbe fatto applicazione del principio iura novit curia.

La doglianza è infondata e non può essere accolta.

A tal fine, appare opportuno premettere che, così come risulta dalla lettura del controricorso, con la memoria di costituzione in appello (opportunamente riportata in ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza), la F Srl aveva sollecitato il giudice ad applicare le norme di cui all’art. 999 c.c. e art. 2923 c.c., comma 2.

Ciò premesso, mette conto di sottolineare che la prospettazione al giudice della necessità di applicare determinate norme di legge al caso portato alla sua cognizione non costituisce proposizione di eccezioni nè comporta l’ampliamento del tema di indagini e di quello decisionale, che di per sè postulano indispensabilmente l’allegazione di fatti nuovi e diversi da quelli portati al vaglio del giudice di primo grado.

Invero, in base al principio generale iura novit curia, il giudice ha il potere-dovere di individuare anche d’ufficio le norme giuridiche riguardanti la fattispecie concreta, indipendentemente dalle indicazioni delle parti o dalla mancanza di tali indicazioni, in quanto ciò attiene all’obbligo inerente all’esatta applicazione della legge. Del resto, sono rilevabili di ufficio anche in grado di appello i fatti modificativi, impeditivi o estintivi della pretesa azionata in giudizio risultanti dalla legge applicabile al caso di specie, salvo che le singole disposizioni di legge espressamente prevedano come indispensabile l’iniziativa di parte e la manifestazione di volontà della stessa quale elemento integrativo della fattispecie difensiva, ipotesi non ricorrente nel caso di specie, come sarà utilmente precisato, in occasione dell’esame della quinta ragione di doglianza, proposta dai ricorrenti.

Passando alla quarta doglianza, per violazione della L. n. 203 del 1982, art. 49 e per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, va rilevato che, ad avviso dei ricorrenti, stante il decesso dell’originario ricorrente in corso di causa, la Corte avrebbe dovuto stabilire che il rapporto continuasse con gli eredi a far data dall’apertura della successione. Inoltre, i giudici di seconde cure non avrebbero motivato adeguatamente sul punto, limitandosi ad affermare che il rapporto agrario non poteva continuare in capo agli eredi in quanto era già venuto meno in capo al de cuius e trascurando che il rapporto non era invece cessato in quanto la F non aveva eccepito la cessazione neppure in sede di costituzione processuale.

Il primo profilo di doglianza è inammissibile, essendo con tutta evidenza, fondato su una circostanza sopravvenuta (la morte del ricorrente fu comunicata dal procuratore nel corso del giudizio di primo grado), e conseguentemente su una questione nuova, relativamente alla quale il difensore della F non accettò il contraddittorio deducendone l’inammissibilità “non trasmettendosi i presunti diritti derivanti dalla pretesa dedotta in giudizio ai predetti eredi” (così, nel verbale dell’udienza del 18 ottobre 2007 nel giudizio di primo grado, riportato nel controricorso a pag. 29 per il principio di autosufficienza). Con la conseguenza che su tale questione nuova la Corte territoriale non era tenuta a pronunziarsi.

Il secondo profilo è invece infondato alla luce del rilievo che la società resistente, come è stato già rilevato in precedenza, contestò in radice la stessa esistenza del rapporto agrario dedotto da parte ricorrente, onde la superfluità dell’eccezione di cessazione di un rapporto insussistente, sottolineando la sua posizione di terzo destinatario di un provvedimento emesso a suo favore dal Tribunale ex art. 586 c.p.c., nell’ambito di un procedimento esecutivo dal quale nulla era emerso circa presunti pesi gravanti sul fondo o presunti diritti di altri.

Passando alla quinta doglianza, per violazione dell’art. 999 c.c., art. 112 c.p.c., nonchè per omessa e/o insufficiente motivazione, va rilevato che i ricorrenti hanno censurato la sentenza impugnata in quanto la Corte territoriale aveva omesso di pronunciarsi sull’inapplicabilità dell’art. 999, per difetto di eccezione della controparte sul limite di efficacia quinquennale e per carenza di interesse all’eccezione, nonchè omesso di motivare adeguatamente su tali fatti controversi, limitandosi ad osservare che secondo la norma citata le locazioni concluse dall’usufruttuario continuano per la durata stabilita ma non oltre il quinquennio dell’usufrutto.

La doglianza è infondata e non merita di essere attesa. A riguardo, occorre chiarire che la continuazione delle locazioni concluse dall’usufruttuario, in corso al tempo della cessazione dell’usufrutto, per il termine massimo di un quinquennio dalla cessazione dell’usufrutto, sempre che constino da atto pubblico o da scrittura privata di data certa anteriore, deriva dall’espressa previsione dell’art. 999 c.c. e costituisce quindi la mera applicazione di una norma di legge. Con la conseguenza che, ai fini della scadenza della locazione, in difetto di contraria previsione della legge, non è richiesta alcuna manifestazione di volontà della parte interessata nè, in sede processuale, ove insorga una lite con il conduttore che intenda protrarre la sua detenzione oltre il termine quinquennale previsto dall’art. 999 c.c., occorre un’eccezione in senso stretto della parte interessata al fine di ottenere la reiezione della pretesa avversaria.

E ciò, in quanto si tratta di una mera applicazione della norma di legge in tema di opponibilità e validità del contratto stipulato.

La premessa torna utile perchè in tale ipotesi, pur in assenza di una esplicita statuizione del giudice di merito, non ricorre il vizio di omessa pronuncia – nè tanto meno il vizio motivazionale – quando la decisione, adottata dal giudice di appello, così come è avvenuto nel caso di specie, comporti una statuizione implicita di rigetto della ragione di doglianza in ragione dell’evidente incompatibilità della censura avanzata con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia.

Passando alla sesta doglianza, articolata sotto il profilo della violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2923 c.c., anche in relazione agli artt. 416 e 560 c.p.c., L. n. 203 del 1982, artt. 1, 2 e 41, omessa pronuncia e motivazione circa l’erronea individuazione del dies a quo di cui all’art. 2923 c.c. e sulla mancata eccezione di controparte sulla inopponibilità oltre il novennio, nonchè della motivazione omessa, insufficiente e contraddittoria, va rilevato che, ad avviso dei ricorrenti, la Corte di Appello avrebbe erroneamente ritenuto che la F avesse sollevato l’eccezione di inopponibilità del contratto agrario oltre il limite novennale dell’art. 2923 c.c..

Inoltre, avrebbe omesso di motivare sui rilievi di carenza di eccezione sull’opponibilità limitata al novennio di cui alla citata norma e sulla consequenziale impossibilità di dare ingresso all’applicabilità di tale norma. La doglianza non coglie nel segno.

In primo luogo, mette conto di rilevare che, come risulta dalla sentenza impugnata, con un accertamento di fatto, incensurabile in sede di legittimità, la Corte di merito ha verificato che “sin dal primo atto difensivo e cioè dalla comparsa di risposta, la F aveva preso precisa posizione in ordine all’asserito contratto di affitto, evidenziando che non risultava trascrizione alcuna anteriore alla trascrizione dell’atto di pignoramento” (v. pag. 7 della sentenza impugnata).

Giova aggiungere che, come ha già statuito questa Corte, “la locazione ultranovennale non trascritta non è opponibile all’aggiudicatario di un immobile in sede di espropriazione forzata, atteso che il disposto dell’art. 2923 c.c., diversamente da quello di cui all’art. 1599 stesso codice (dettato in tema di vendita volontaria), non prevede la possibilità che l’acquirente assuma, nei confronti dell’alienante, l’obbligo di rispettare la locazione, tale possibilità essendo del tutto inconciliabile con lo scopo della procedura esecutiva, che è quello di realizzare il prezzo più alto nell’interesse tanto del debitore quanto dei creditori procedenti ” (Cass. n. 111/2003).

Ne deriva l’infondatezza della ragione di censura.

Resta l’ultima doglianza, per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., con cui i ricorrenti lamentano che la Corte territoriale, nell’avere erroneamente rigettato l’appello, avrebbe erroneamente condannato gli appellanti alla rifusione delle spese di lite.

La censura è inammissibile in quanto, a ben vedere, non è volta a censurare il capo della decisione sulle spese, in sè e per sè, ma in quanto condanna consequenziale ed accessoria alla pretesa erroneità della decisione sul merito della causa. Ed è appena il caso di osservare che il motivo di doglianza deve investire il capo della decisione in sè, contrapponendosi in maniera specifica ad esso ed evidenziando i vizi intrinseci alla singola statuizione censurata, vizi propri di essa che non siano il generico riflesso della decisione impugnata nel suo complesso.

Ne deriva l’inammissibilità dell’ultima doglianza.

Considerato che la sentenza impugnata appare esente dalle censure dedotte, ne consegue che il ricorso per cassazione in esame, siccome infondato, deve essere rigettato. Al rigetto del ricorso segue la condanna dei ricorrenti alla rifusione delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in complessivi Euro 3.200,00 di cui Euro 3.000,00 per compensi, oltre accessori di legge e spese generali, ed Euro 200,00 per esborsi.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 20 febbraio 2015. Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2015

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